Cetinale
Vernon Lee

I boschi intorno a Siena

(da Before the War – II, 1917)

I boschi di lecci, e specialmente quelli di soli lecci, immancabilmente mi attraggono, dal momento in cui vidi quelli dietro Spoleto o forse anche da prima. C’è un fascino particolare, che si ritrova nei bossi di Box Hill o nei tassi di Kingly Vale vicino Chichester, negli alberi che solitamente associamo ai giardini, alberi che sembrano quasi potarsi da soli, quando essi ci vengono offerti come un libero e ampio dono da qualche luogo ancora inalterato dagli uomini. Anche i ginepri che crescono sulle colline gessose [dell’Inghilterra meridionale], anche i carpini logorati dalle greggi e dalle nevi dell’Appennino fino ad assumere la sembianza di siepi fanno piacevolmente ondeggiare la mente tra l’idea di nobili giardini abbandonati e la vita selvaggia dei boschi: si pensa ai silvani, ma silvani come quelli di marmo o di vecchio piombo.

A Cetinale, circa quindici miglia a sudovest di Siena, tutte le voglie di questa sorta sono appagate. I boschi spontanei di lecci abbattuti periodicamente da secoli per le carbonaie, i cui vecchi spiazzi formano dappertutto fantastici soffici circoli neri nel muschio e nelle foglie cadute, i boschi di lecci qui sono stati tagliati verticalmente nel loro folto da un sentiero scosceso o una scalinata (non dissimile dalle scalinate d’acqua alla sommità delle ville romane), che va su diritta da sopra i cancelli della villa e il campo da bocce fino a uno squadrato edificio barocco, casino di caccia o eremo, posto nel punto più alto. E per i pendii più dolci dei boschi corrono ampie strade davanti a piazze carbonaie abbandonate, strade sulle quali il Cardinale, che ha celebrato se stesso in un’enorme iscrizione sul palazzo sottostante, forse seguiva comodamente la caccia su una portantina appesa tra due bianchi bovi dalle lunghe corna, o su una carrozza, ai tempi in cui la villa era ancora nello stato primiero. Ai suoi giorni, un po’ meno di tre secoli or sono, o anche molto più di recente, questi boschi di lecci intorno a Siena, qua e là congiunti alle ancora intatte selve della Maremma, devono avere accolto cervi e un’abbondanza di cinghiali, e negli inverni più freddi qualche occasionale branco di lupi vagante dal Monte Amiata o dagli Appennini.

È in questi boschi di sempreverdi, che spontaneamente assumono l’aspetto di giardini regolari e si trovano a poca distanza dai cancelli e le statue di qualche autentico giardino regolare come quello di Cetinale, che io immagino la magnifica caccia del Duca nel Don Chisciotte, quando i carri degli stregoni trainati da neri bovini e drappeggiati di nero e d’argento come un qualche “Trionfo della Morte” passarono davanti alla Corte Ducale con maschere recitanti versi tra il bagliore di torce e l’abbaiare dei segugi, qualcosa tra uno spettacolare corteo e un reale pizzico di magia. Senza dubbio il Cardinale di Cetinale giocò burle del genere (colà uno scherzo di cui egli stesso ebbe spavento) a quei pazzi cavalieri che erano certi di vivere alle sue spalle. E l’inquietante ricordo di quel vano appropriarsi del nome e della figura della Morte, trasformando servi in attori abbigliati da scheletri e Anime dell’Inferno, forse si mescolò col rimorso per gli amori galanti e l’ambizione o le prepotenze quando Sua Eminenza divenne troppo vecchio e sofferente di gotta, o magari soggetto ad attacchi di apoplessia, per continuare a bramare il Mondo e la Carne. Fu allora, immagino, che trasformò quel casino di caccia (o luogo di incontri galanti) al sommo dei boschi di lecci in un luogo di ritiro spirituale, e faticosamente prese ad andare là di tanto in tanto nella sua portantina. E, nel timore che i ricordi dei piaceri mondani potessero destare peccaminosi rimpianti mentre lo osservava da una finestra del palazzo sottostante, ebbe la singolare precauzione di ricoprirne la facciata con una croce colossale, nicchie e busti di santi, affinché dominasse i paraggi e gli rammemorasse il fatto che aveva installato un santo eremita nelle stanze spaziose e nella cucina dove egli, allegro principe della Chiesa, soleva giocare alla semplicità pastorale, preparando e cucinando la selvaggina che aveva abbattuto, con ninfe fornite di pettorine e gentiluomini dagli alti stivali che allestivano il fuoco e ungevano l’arrosto.

E adesso vivono là veri contadini, e i boschi di lecci di Cetinale sono abbandonati ai carbonai e a quei silvani dalle orecchie a forma di foglia che immaginiamo in mezzo al fogliame frusciante nelle notti tempestose e senza luna.
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